Mercoledì 9 marzo, il secondo incontro al Fondo Madonnina di Gaiba
GAIBA (RO) – Fra l’entusiasmo degli iscritti, si terrà mercoledì 9 marzo, all’agriturismo Fondo Madonnina di Gaiba, a partire dalle 18, il secondo incontro formativo dedicato alla cultura gastronomica rural popolare polesana. I corsisti, tutti titolari d’azienda agricola e operatori della ristorazione, dotati di bandana e grembiulino giallo Coldiretti, si cimenteranno, sotto la guida dello chef Michele Francia, insegnante dello Ial di Ferrara, nella preparazione dei primi piatti polesani di stagione, apprendendo le tecniche di organizzazione di una cucina professionale.
Il progetto culturale è finanziato dal Gal Delta Po ed organizzato dall’ente di formazione Impresa verde Coldiretti, in collaborazione con l’azienda agrituristica Fondo Madonnina, associata a Terranostra, che mette a disposizione le attrezzature e le sale.
Nel primo incontro, Maria Chiara Crepaldi, etnografa, studiosa di cultura popolare polesana, in modo vispo e interattivo, ha tracciato il quadro storico-sociologico del fenomeno, soffermandosi sulla tradizione gastronomica. Grande orgoglio per le signore presenti quando ha affermato: «La cucina popolare è donna». «La cucina di palazzo era prerogativa del maschio – ha spiegato Crepaldi – Ci sono documenti del ‘700 che testimoniano che non si volevano le donne nelle cucine dei nobili. Se la cucina popolare è sopravvissuta è perché si è difesa nella famiglia, portata avanti dalle donne; una cucina senza ricettari scritti con le dosi fissate, ma con misure metaforiche (un “spissighin”, “na lagrema de…”, un pizzico, una lacrima di), fatta di esperienza, adattabile a seconda dei luoghi e del momento».
L’alimentazione popolare era a base di zuppe, con tutte le verdure e le erbe possibili. «Un cibo adatto ad anziani e bambini – ha spiegato Crepadi – Pensate se non avessimo i dentisti… Dopo i 50 anni erano tutti vecchi. Li vediamo nelle fotografie: sembravano sempre tutti anziani e vestiti di nero. Non c’erano le tinture per capelli! Solo nelle feste – ha proseguito la studiosa – si tirava il collo alla gallina e si faceva il brodo “coi oci” (con le bolle grasse). Era una cucina regolata in modo drastico. I fagioli si usavano moltissimo, col riso, nelle zuppe e con altre verdure. Il famoso “riso alla carnarola” non è altro che una minestra riscaldata che mangiavano i pescatori quando erano fuori in barca».
«Il maiale lo avevano i più ricchi – ha spiegato –. I braccianti ne acquistavano metà e lo conservavano gelosamente. Come le torte pasqualine, cotte in quantità nei forni padronali, a primavera, quando le galline ricominciavano a deporre le uova, ma poi razionate per ciascun ramo (colonna) della famiglia».
«La cultura del villaggio – ha concluso l’etnografa – ci rimette in contatto con la parte arcaica di noi. Le tradizioni bisogna viverle nel corpo, nascono da dentro e bisogna saper attingere dalla tradizione per animare il pranzo, far “scaldare i corpi” e far sentire alle persone quello che stanno mangiando. Un modo per predisporre gli animi è far cantare i commensali: cambiano gli sguardi e si riprende il contatto con un mondo che ci appartiene nel profondo». Detto, fatto. Con grande entusiasmo i presenti si sono lanciati in cori di canti popolari, guidati da Maria Chiara Crepaldi all’organetto.
I corpi erano sufficientemente caldi, quando si sono lanciati sulla degustazione dei “piatti d’accoglienza” preparati dallo chef Michele Francia con lo staff dell’agriturismo Fondo Madonnina.